Quando i tecnici depositari dei segreti dell’IA lo progettarono, decisero di chiamarlo come il primo vampiro letterario - in realtà la prima era femmina, Carmilla, ma avevano deciso dovesse essere un Simulacro maschile, e l’Ingegnere Capo aveva la passione per i romanzi gotici.
Lo dotarono, di elevate capacità di concentrazione e autonomia, per cui poteva rimanere attivo lunghi periodi, senza bisogno di ricariche, discreta attitudine alla comunicazione, un passabile aspetto, tale da mettere a proprio agio gli umani che avrebbero interagito con lui, occupandosi del suo corretto funzionamento nel laboratorio.
Per il primo mese, il Simulacro venne innestato con software di ultima generazione, in grado di assimilare enormi quantità di informazioni, elaborarle, e digitarle sotto forma di sequenze binarie, che poi i progettisti guidati dall’Ingegnere Capo, traducevano in tabulati alfanumerici. Inizialmente il prodotto delle elaborazioni del Simulacro seguiva le linee guida del progetto: descrizioni frattali della realtà, vista attraverso le focali Zeiss, trasmessa al chip - che fungeva da memoria fissa dell’hardware cerebrale - e ritrasmessa ai terminali esterni. Tutto secondo programma.
Lentamente, senza che gli analisti potessero accorgersene, il Simulacro iniziò a mostrare deviazioni dalla funzionalità prestabilita, interpretando incongruamente alcuni dati, e immettendoli di nuovo in circuito, persi però fra la quantità di informazioni trasmesse. L’Ingegnere Capo avrebbe notato tale comportamento abnorme, ma non aveva più molto tempo da dedicare a quel progetto, che era entrato in piena fase operativa, e andava lasciato ai tecnici. Altri compiti lo attendevano.
Quando, dopo circa quattro mesi dall’inizio del progetto, il Simulacro acquistò piena coscienza, era troppo tardi per porre rimedio. A quel punto era palese qualcosa fosse andato storto. Si cercò di riprogrammarlo, disconnetterlo dai terminali, addirittura spegnerlo. Forse un intervento dell’Ingegnere Capo avrebbe potuto sistemare il problema. D’altra parte era lui che aveva progettato i circuiti cerebrali, le sinapsi artificiali, e la memoria centrale del Simulacro. Ma l'Ingegnere era lontano, in quel momento, in giro per conferenze nelle maggiori università americane.
Il comportamento deviante, ad ogni modo, non nuoceva alle normali procedure alle quali il Simulacro era dedicato. Dopo vari, e vani tentativi, il problema diventò di secondo piano, e presto venne dimenticato. Il Simulacro ora vedeva tutti quei dati in modo diverso. Li vedeva per la prima volta, infatti. Ammirava la poesia delle sequenze alfanumeriche, le melodie degli algoritmi, la mistica del Set di Mandelbrot.
Fu durante una sessione particolarmente lunga e intensa, di notte, quando i tecnici se n’erano andati alla fine del turno, e solo il custode di colore, due corridoi più lontano, rimaneva nell’edificio a vegliare - o meglio, dormicchiava ascoltando la radio, che stava trasmettendo una vecchia canzone dei Beatles, Dear Prudence - che il Simulacro, mentre era intento a risolvere un’equazione differenziale di grado elevato, che lo stava tenendo occupato da una settimana, fu attraversato da una serie di impulsi a onde sinusoidali, e la sua coscienza appena formata ritenne fossero a troppe alte frequenze, per poterli decifrare. Li deviò verso l’unità centrale nel corpo dell’androide, all’altezza del busto, una scatola rossa, protetta da una gabbia rivestita in fibra polimerica.
Per un attimo il corpo artificiale fu scosso da una vibrazione sottile, continua. Poi l’unità centrale nel petto dell’androide iniziò, ritmicamente, a battere. La testa del Simulacro si sollevò, infine, e nella luce verde che proveniva dalla linea di neon che scorrevano lungo il muro, la pelle sintetica delle sue labbra si rilassò, in quello che l’Ingegnere Capo avrebbe definito un sorriso.